I social network ci stanno rendendo incapaci di comprendere una notizia e di distinguere quelle vere dalle bufale?
Una recente ricerca dell’Università di Stanford ha messo in evidenza come i cosiddetti “Millennials” non riescano a distinguere, nel loro navigare sul web e sui social, fra news verificate e bufale. La ricerca è stata condotta negli Stati Uniti su un campione di 7804 ragazzi, e un’età che spazia dall’università alle scuole medie.
In particolare la ricerca ha evidenziato come fra due account Facebook, che lanciavano una notizia riguardante la campagna per le presidenziali di Trump, solo un quarto fra gli studenti siano riusciti ad identificare e a spiegare la spunta blu di account verificato e, soprattutto, più del 30% degli studenti hanno ritenuto l’account fake più degno di fiducia a causa di alcuni elementi grafici presenti all’interno.
I ricercatori sottolineano così che i ragazzi prestano più attenzione ai contenuti dei post pubblicati e a come sono pubblicati, più che alle fonti che li pubblicano: “Nonostante la loro dimestichezza con i social media, molti studenti sono all’oscuro delle convezioni di base che indicano l’informazione digitale verificata”.
Cosa ancora più incredibile, l’80% degli studenti di scuola media non è riuscito ad identificare, all’interno dell’home page di un sito di news, un native advertising, ovvero un articolo sponsorizzato, anche se questo era correttamente segnalato come “sponsored content”.
La ricerca evidenzia come, al di là della falsa percezione che i giovani abbiano più capacità di interpretare il mondo digitale, questi in verità sembrano in difficoltà a capire la differenza fra notizie false/sponsorizzate/non verificate e notizie invece provenienti da fonti affidabili e correttamente riportate. La questione è particolarmente grave in quanto, come sappiamo, la gran parte dei giovani si affidano esclusivamente ai social e alle news online per la propria “dieta informativa”.
La post-verità e le “bolle informative”
Il problema, secondo molti, è che l’autorevolezza delle fonti tradizionali (giornali, tv e mass media tradizionali in genere) è messo in constante discussione da “fonti del web”; in questo modo i nativi digitali sarebbero nella situazione, al contrario dei propri genitori e dei propri fratelli maggiori, di non avere delle vere e proprie fonti di riferimento preferite e questo fa di loro degli “scettici digitali”, che quindi reagiscono alle notizie presenti sul web in gran parte in base alla fiducia riposta nella cerchia amicale di riferimento che si segue sui social e all’emozione che tale notizia condivisa suscita.
La condivisione infatti presuppone un accordo e, come sappiamo, più l’algoritmo dei social riconosce che si interagisce con determinate persone, più mostrerà contenuti proposte da queste persone. È la teoria delle “echo chambers“, per cui gli utenti sui social tendono a circondarsi di persone che la pensano come loro, formando quindi delle bolle chiuse alla discussione per cui vi è effetto di bias di conferma.
La teoria è probabilmente solo in parte vera, in quanto ricerche recenti hanno messo in discussione il fatto che queste bolle esistano, e confermato piuttosto che quello che impaurisce gli utenti è il confronto spesso troppo aggressivo con cui la discussione vene portata avanti, per cui il 30% degli utenti ha utilizzato gli strumenti messi a disposizione per nascondere gli aggiornamenti di altri.
Il termine stesso di post-verità, emerso negli ultimi mesi, starebbe ad indicare la volontà degli utenti dei social di non ritenere importante la reale fattualità di una notizia, quanto l’emozione e la storia che quella notizia racconta.
I social network ci fanno diventare più stupidi e ignoranti, quindi?
La post-verità è una condizione implicita nei social network? I giovani, informandosi completamente online non riusciranno più a distinguere un fatto vero da un fatto fittizio ma congruente con la propria visione della realtà? La questione è un po’ più complessa, ovviamente, e non si pone sul binario della demonizzazione o santificazione dei social network, piuttosto sul fatto che nell’attuale situazione in cui lo spettro delle possibilità informative si è allargato a dismisura i giovani millennials si trovano nella situazione mai avvenuta prima di dover valutare una miriade di nuove fonti informative, senza avere il tempo e le risorse per farlo. Non solo, tale trasparenza e apertura delle vecchie fonti ne hanno fatto calare l’autorevolezza e si trovano quindi in una sorta di “nichilismo informativo”.
L’unica cosa che si può fare, quindi, è spostare la problematica dal piano tecnologico al piano culturale, impostando una seria riflessione su come le nuove generazioni debbano imparare a rapportarsi con le notizie e le fonti informative, piuttosto che emanare leggi o regolamentazioni sui social network e sulla libertà di espressione in rete.
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