Come cambia il giornalismo nell’era dei Social? Quali saranno le fonti di revenue per le testate, dopo il blocco degli ads? L’abbiamo chiesto a Pier Luca Santoro di DataMediaHub
Per chi non lo conoscesse, Pier Luca Santoro è un professionista, consulente e formatore nell’ambito Marketing, Digital Marketing e Social Media Marketing, che collabora con diversi top player del settore tra cui, oltre a DataMediaHub, Talent Garden, La Stampa, Google e Il Sole24Ore.
Recentemente avete lanciato il Master Giornalismi & Comunicazione Corporate, ci spieghi perché la necessità di un master che tratti questi argomenti?
«Ci sono in atto due tendenze. Da un lato la progressiva perdita occupazionale all’interno delle redazioni, fenomeno che sicuramente continuerà anche negli anni a venire. Dall’altro lato il passaggio da brand a media e del brand journalism fa diventare i brand editori di se stessi, generando contenuti esclusivi e adattando il loro storytelling all’interattività della rete e dei social media, cambiando il modo di comunicare, di relazionarsi con le persone, tra impresa e pubblico. Modalità adottata ormai da molte imprese, sia a livello internazionale che nel nostro Paese. Esistono dunque delle reali e crescenti opportunità lavorative per i giornalisti in quest’area ma ovviamente le competenze del giornalismo “tradizionale” non sono sufficienti. Il master copre questo vuoto dando alle persone le conoscenze e le competenze necessarie.»
Perché una persona che ha studiato per diventare giornalista dovrebbe decidere di lavorare all’interno di un’azienda e perché un’azienda dovrebbe assumere dei giornalisti?
«Fondamentalmente perché nel nostro Paese le possibilità di ricavare un reddito dalla professione giornalistica sono ridotte al lumicino. Basti pensare che 8 lavoratori autonomi su dieci [l’82.7%] dichiarano redditi inferiori a 10.000 euro all’anno, secondo il rapporto sulla professione giornalistica in Italia. Il brand journalism si inserisce in una più ampia strategia di content marketing, in una logica di inbound marketing, dell’attirare a sé le fasce di pubblico d’interesse. La conferma da un lato della progressiva disintermediazione in atto e dall’altro lato conseguenza formale e sostanziale del mutamento dell’atteggiamento del consumatore nei confronti del messaggio pubblicitario tradizionale.»
Quello del giornalista è un ruolo sempre meno definito, quindi, come vedi l’informazione nel futuro? Il mestiere del giornalista come lo abbiamo conosciuto nel ‘900, secondo te, è morto?
«I basic del mestiere del giornalista ovviamente restano attuali. È il modo di esplicarli che è cambiato in maniera significativa. Oggi il giornalista deve porsi al centro del processo di produzione informativa nel “nuovo” ecosistema dell’informazione. Il nuovo ruolo del giornalista è quello di “content curator”. L’idea è che il giornalista si ponga al centro del processo facendo da collettore delle informazioni che provengono dalle fonti tradizionali e non, elevando e qualificando così il proprio ruolo altrimenti in declino. Naturalmente anche il flusso di lavoro è cambiato.»
Un altro problema annoso è quello del business model delle testate online. L’adv “tradizionale” rende sempre meno, sistemi come Adblock sono sempre più diffusi, Google ha recentemente annunciato che Chrome bloccherà le pubblicità invasive. Insomma, come si potrà garantire l’esistenza di una stampa libera, ed economicamente indipendente anche nel mondo online?
«Il rapporto “Journalism, Media and Technology Trends and Predictions 2018” del Reuters Institute for the Study of Journalism, pubblicato in questi giorni, indica chiaramente come non esista più un modello di business unico per tutti i publisher. La vendita di contenuti editoriali sta diventando la fonte principale di ricavo per moltissimi editori di quotidiani. A questo vanno però aggiunte altre forme di ricavo che possono andare dal brand e sponsored content alla formazione, passando per eventi e molto altro ancora. Ciascun editore, in funzione del proprio pubblico di riferimento e del suo know-how deve trovare la propria strada.»
Big data: mi ha colpito molto un dato che avete riportato anche voi qualche tempo fa, ovvero che solo il 9% delle imprese italiane li utilizza per il proprio business, secondo te perché?
«Fondamentalmente vi è una grave lacuna in termini di managerialità. Nelle piccole imprese, che come noto sono la stragrande maggioranza delle aziende del nostro Paese, la carenza di managerialità è dovuta sia dall’assenza di manager all’interno di queste che da gravi carenze culturali ed organizzative dell’imprenditore. Nelle grandi imprese invece molto spesso il top management non ha gli strumenti, le competenze per comprenderne il valore ed evidentemente lo staff non è in grado di fargliele comprendere ed apprezzare in maniera compiuta.»
Quali sono le opportunità che ci stiamo perdendo?
«Beh, come si suol dire, i big data sono il petrolio del nuovo millennio. Solo in chiave di marketing, la marketing spend può essere più precisa, Il forecasting può essere più accurato e meno “di pancia”; è possibile adottare metodologie data-driven per il lead management e per la gestione dell’esperienza del cliente lungo l’intero ciclo di vita, grazie alle tecnologie di data-visualization è possibile calibrare le tattiche commerciali in real-time, e molto altro ancora. Naturalmente i vantaggi sono anche per gli altri comparti aziendali, dalla produzione alla logistica passando per ricerca & sviluppo e acquisti.»
Negli anni scorsi c’è stata una corsa al Social Media Marketing, spesso senza una vera pianificazione, oggi si sta tornando a considerare Facebook e co. come dei canali su cui investire budget, piuttosto che puntare a strategie organiche che ormai non funzionano più. Come vedi il ruolo dei Social Network all’interno dei piani di comunicazione aziendali, nel prossimo futuro?
«I dati più recenti evidenziano come, in buona sostanza, un buon utilizzo dei social che ne sfrutti tutte le possibilità e potenzialità, a distanza di un decennio dalla loro introduzione, sia ancora affare per pochi in Italia. A poco meno di 20 anni dal Cluetrain Manifesto la tanto celebre, quanto evidentemente incompresa, tesi “markets are conversations”, resta, purtroppo, ancora una chimera nella quotidianità aziendale. Nel futuro bisogna rompere la cultura aziendale della comunicazione mono-direzionale poiché ormai le persone si attendono che le imprese rispondano, si relazionino e siano aperte a loro, chi non lo fa è destinato all’estinzione, al fallimento. Inoltre sino ad oggi i social sono stati usati, male, come strumento di comunicazione, come medium di promozione ma le potenzialità in termini di social media listening e social media mining sono infinite, e da sfruttare. Infine, le conversazioni viaggiano, e viaggeranno sempre più, attraverso le app di messaggistica istantanea, un presidio di questi canali è fondamentale.»
Progetti per il 2018? Ti vedremo a qualche evento?
«Sarò al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, che è sicuramente l’evento di maggior rilevanza in Europa sul tema, dove per conto dell’organizzazione farò social media monitoring delle conversazioni sui social durante l’evento così come faccio da anni ormai. Sicuramente sarò in giro per l’Italia, oltre che per lavoro naturalmente, a presentare il libro uscito in questi giorni “Comunicare Digitale” di cui sono co-autore.
Per il resto al momento altro non posso dire, ma siamo solo all’inizio dell’anno e le novità nel corso del 2018 non mancheranno di certo.»
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